Corpo vissuto e amore di sé
Intervento all’evento “Libere di Essere Noi Stesse… Uniche e Irrepetibili” di Susy Zanardo
ISSD, Settimana della Mamma 2018
Parto da un’idea antica, intravista da Aristotele e portata a compimento dal pensiero cristiano, ma attestata anche nella tradizione ebraica e in numerose tradizioni sapienziali: l’idea dell’unità corpo-logos: corpo-spirito o corpo-parola.
Che cosa significa quest’unità? Significa che nulla in un essere umano è solo organico, ma tutto è già da sempre simbolico: lavorato con l’immaginazione e tessuto nell’orizzonte dei significati.
Per dirlo in modo, forse, più suggestivo: la parola (spirito, interiorità) si incarna (si fa corpo) e il corpo, che non è niente senza la parola che lo anima, è però il solo luogo dove lo spirito si manifesta. Quando infatti la nostra anima soffre o è in trepidazione, quando esulta o gioisce è tutto il corpo che patisce o giubila. Così, quando il corpo soffre, è tutta la vita psichica che si deve riorganizzare.
Il corpo umano non è corpo animale. L’animale nasce provvisto di istinti, ovvero di risposte rigide all’ambiente e ai bisogni interni (la fame, la sete, la riproduzione). Per intenderci, tutte le api sono preformate per costruire lo stesso tipo di nido; i rituali di accoppiamento e i modi di procurarsi il cibo sono uguali per tutti gli esemplari di una stessa specie. Non così per l’essere umano che non reagisce semplicemente all’ambiente, ma vi risponde. E impara a farlo all’interno di relazioni strutturanti, a cominciare da quelle di accudimento.
L’essere umano risponde in molti modi agli oggetti del suo mondo, abbiamo detto. Ovvero, agli oggetti del suo mondo, egli si accosta con le mediazioni del linguaggio e con l’attribuzione di senso (li riveste cioè di valore estetico, morale, affettivo ecc.). Se ripensate alla scena iniziale di 2001 Odissea nello spazio, ricorderete che lo scimmione si stacca dalla sua condizione animale quando prende un osso e immagina un uso diverso per quell’osso; l’uomo si umanizza quando prende una pietra e ne immagina un uso diverso: la pietra smette di essere semplicemente una pietra e diventa uno strumento per tagliare o un supporto per incidere, un oggetto simbolico, addirittura sacro, oppure un’arma per ferire… L’uomo riesce perciò a immaginare delle possibilità diverse per gli oggetti, compresi gli oggetti del bisogno, come per esempio il cibo.
Il cibo, per l’essere umano, non ha solo un valore nutritivo, ma anche sociale e affettivo: consumiamo i pasti insieme, abbiamo inventato un’arte, quella culinaria, per preparare il cibo e assaporarne anche il valore estetico (pensate all’enfasi che oggi gli chef pongono nell’impiattare o al successo di Masterchef); secondo l’antropologo Claude Lévi-Strauss, è il passaggio dai cibi crudi a quelli cotti a segnare l’avvento della cultura (gli esseri umani hanno imparato a elaborare e trasformare il materiale che trovavano nell’ambiente).
Il cibo può perciò diventare simbolo di cura, piacere della condivisione, persino pane spezzato per gli altri: pensate a come tutto il Vangelo sia percorso dal tema del mangiare insieme: Gesù mangia coi discepoli e coi peccatori e, nell’ultima cena, offre il proprio corpo nel pane consacrato. Perciò capiamo bene il valore simbolico e persino spirituale del cibo.
Ma il cibo può diventare anche un’arma contro se stessi e la meta di una pulsione distruttiva. Posso voler cessare di nutrirmi per difendere ostinatamente un vuoto che temo qualcuno possa invadere e distruggere. E’ quello che tenta di fare l’anoressica. Attraverso il controllo del cibo, le ragazze anoressiche diventano “sentinelle del vuoto”, sentinelle di un corpo fortezza, fino a rifiutarsi – con volontà granitica – di introdurre cibo per giorni e settimane; tuttavia, il controllo del cibo (calorie, valori nutritivi, uso di lassativi e diuretici) si infrange contro una radicale impotenza: non riescono a controllare la propria pulsione al controllo e finiscono per essere inghiottite da questa stessa spinta. Nel caso della ragazza bulimica, invece, la volontà di riempirsi di cibo in modo compulsivo, ripetitivo, mortifero è la resa a quel vuoto del corpo che niente può riempire, perché è dall’inconsistenza di sé che lei si vuole difendere, scaricando questa stessa inconsistenza sul corpo, accusato di essere il responsabile della sua impotenza.
Sul corpo è scaricato il senso dell’incertezza, la fatica a definire l’identità: “se avessi quel corpo, sarei amata”, pensa la ragazza che smette di mangiare. “Se non sono amata, è colpa del mio corpo”, dice la ragazza che manda giù il cibo. L’anoressica fai dei bordi della sua pelle un contenitore di vuoto e la bulimica ne fa un contenitore di cibo e, mentre cede all’impero del cibo, cerca il modo per rigettarlo, così da poterne consumare ancora e ancora. Al contrario, l’anoressica, sedotta dall’assenza, ripete a se stessa: ancora e ancora vuoto; la fame di vuoto non le basta mai.
Nella nostra configurazione culturale, troviamo altre patologie del vuoto: per esempio, le dipendenze dalle sostanze, dal video, dal gioco o anche dal lavoro. La dipendenza dalla sostanza, al pari del rapporto de-formato al cibo, rappresenta il tentativo estremo di lottare contro l’angoscia che scaturisce dal legame con l’altro. E i legami ci angosciano perché sono il bene più prezioso ma anche il più indisponibile, il luogo della nostra umanità ma anche una zona di pericolo. L’altro è colui che mi può rendere felice, ma è anche colui che può avvelenare la mia vita. L’altro è libero di avere altri desideri (e anche di non desiderarmi più). L’altro può avermi ferita, delusa, disconfermata, rimandando di me un’immagine inaccettabile. Può così accadere che il mio desiderio dell’altro essere umano, desiderio insopprimibile in ogni uomo, venga spostato sull’oggetto o sul cibo, incaricati di prevenire o curare il trauma della ferita. L’oggetto-cibo diviene una specie di analgesico, un antidolorifico. Vale come antidoto all’angoscia.
Come prendersi cura di questa spinta a simbolizzare il cibo, spinta che, proprio perché potente, può anche rivelarsi mortifera? Come elaborare e trasmettere ai più piccoli un sapere del corpo, affinché riescano a leggerlo e viverlo senza scaricare su di esso i conflitti dell’anima? Non posso che proporre qualche linea di riflessione che andrebbe lavorata e fatta lievitare.
Imparare e insegnare a sentire il proprio corpo significa addestrarsi – nel tempo e nei legami buoni – a decifrare, narrare e governare le sue risposte, impulsi, tensioni, reazioni emotive e fantasie; riconoscere i sentimenti, anche quelli ambivalenti e comprendere che li si può attraversare senza venirne annientati, che diventare adulti richiede di passare attraverso fatiche e conflitti, paure e angosce: per esempio, il terrore di essere sopraffatti da pulsioni incontrollabili o di dissolvere i propri confini nell’incontro con l’altro.
Gli psicoterapeuti insegnano a chiedersi: quale risonanza ha in me il mio corpo? che reazioni mi suscita? qual è il gesto che mi manca, il gesto non compiuto o non ricevuto? il gesto che sto attendendo o il gesto che mi fa stare male? (cfr. Giovanni Salonia). Allora si apre il mondo del corpo vissuto. Nell’esperire il mio corpo, avverto l’intimo intrecciarsi delle relazioni (sento in me il tuo vissuto e ho fiducia del fatto che tu senta e riconosca il mio) e, al tempo stesso, scopro la mia differenza da te, il mio personale modo di rispondere alle pulsioni interne e alle sollecitazioni esterne.
Riconoscere e confermare i vissuti corporei dei nostri piccoli li aiuta a trovare il ritmo del loro corpo, a fidarsi dei propri vissuti, a non temerli, a simbolizzarli, cioè a trovare parole per rendere familiare ciò che del proprio corpo pare estraneo e persino inquietante.
Il corpo infatti a volte non ci risponde: vorremmo più energie e non le troviamo, vorremo star bene e ci ammaliamo, vorremmo essere più belle e siamo come siamo: talvolta, il corpo è quell’estraneo che ci fa resistenza, ma, se impariamo ad accoglierlo nel contatto consapevole con noi stessi e nell’attraversamento delle sue zone luminose come di quelle oscure, allora riusciamo anche a non temerlo. Amare il nostro corpo come un fratello ci insegna san Francesco e, se fratello, allora figlio di uno stesso Padre.
Siamo perciò chiamati, come adulti, a dare prova di aver fatto la pace col nostro corpo; esso non è un feticcio, un sembiante, una cosa da esibire; non è senza limiti, oggetto di un potenziamento falsamente illimitato, non è senza età, neanche se è mantenuto in una giovinezza artefatta e irreale. Accoglierne i limiti significa essere restituiti alla nostra umana vulnerabilità, quella stessa in cui risalta la luce dello spirito-parola, la quale si imprime nello stesso corpo, fragile e denso, scavandolo senza colmarlo. Se non amiamo il nostro corpo, e non ne ripercorriamo il luogo e il senso, come potremmo chiedere ai nostri figli di farlo?
Amare il corpo dei nostri figli e figlie significa restituirglielo come corpo amato, desiderato, portatore di una parola unica e preziosa, intriso di senso, spazio di crescita fino all’ultimo respiro.
Il sapere del corpo ci dice che esso è apertura al mondo, luogo di sensazioni e di piacere. Questo punto va un po’ esplicitato. Il corpo è come una corda tesa: a un estremo, il mio sentire; all’altro estremo, il mondo che viene sentito. Il piacere del corpo nasce nella risonanza positiva di questa tensione tra i due capi, perché se abbandono un capo della corda, anche l’altro cade. Il piacere è generativo quando mi oltrepassa e mi conduce nel mondo: come quando avverto il piacere di camminare sulle onde che si rovesciano sulla spiaggia o sento l’armonia del mio corpo che danza o vede o sente. In quel caso, mi dimentico di me perché sono immersa e rigenerata in altro.
Ma se è vero che il corpo è il luogo del piacere, è vero anche che esso è il luogo del governo di sé, di una padronanza mai conclusa, mai definitiva, ma sempre da ricercare; rinunciare a un godimento chiuso alla vita (fosse anche il godimento del corpo vuoto o del corpo riempito dal cibo) è il modo per aumentare la potenza e la bellezza del corpo.
Vivere il corpo come corpo di relazione e anche corpo di preghiera (cfr. i dieci modi con cui san Domenico pregava col corpo), come corpo di senso è comprendere che noi siamo esseri di desiderio, di cui il corpo è luogo, espressione e via (cioè medio).
Siamo desiderio di senso, di cura, di parola, di vita, d’amore e, più radicalmente, siamo desiderio di un altro desiderio. Umanizzare il desiderio significa perciò non tenerlo agganciato all’oggetto-cibo, ma mettere dello spazio fra il soggetto e l’oggetto, dello spazio libero affinché un altro desiderio possa venire ad abitare. Se mi chiudessi nella fortezza del mio vuoto o nella pulsione a divorare le cose per cancellare il senso di vuoto che mi invade, non potrei ricevere ancora e ancora senso, nutrimento, amore.