L’Altra Dimensione del Management
Intervista a Emma Ciccarelli Vicepresidente del Forum delle Associazioni Familiari, membro di Value@Work e moderatrice al convegno “L’Altra Dimensione del Management. Il Valore aggiunto delle donne, tra impresa, famiglia e società”.

Il 4 maggio scorso si è tenuto nel centro Agostinianum il convegno intitolato “L’Altra Dimensione del Management” promosso da Federmanager, con il patrocinio del Dicastero per i Laici Famiglia e Vita della Santa Sede. L’evento ha affrontato il valore aggiunto delle donne tra impresa, famiglia e società e il bisogno della presenza femminile ai vertici aziendali. Il convegno ha avviato i lavori del comitato scientifico che approfondirà queste tematiche così importanti durante i prossimi mesi. In vista del convegno è stato condotto uno studio realizzato da G&G Associated nel quale Federmanager ha coinvolto diverse realtà europee ed italiane e i cui risultati sono stati presentati il 4 maggio.
Lo studio fatto parte dalla premessa che la parità formale tra uomo e donna non si è tradotta in una parità sostanziale, il mondo del lavoro è un ambiente dove ancora sorgono ostacoli e discriminazioni basate sul sesso, la donna risulta svantaggiata nell’accesso al mondo del lavoro e a retribuzioni eque, anche nei paesi sviluppati. Organizzazioni di settore hanno raggiunto la stessa conclusione: una società più equa è una società più ricca. Secondo te, quale la causa di questo gap? Culturale? Economico? Sociale? Quale sarebbe una via vincente per affrontarlo nel contesto italiano?
Malgrado tutti i progressi sociali degli ultimi 100 anni permane un gap di genere che è frutto ancora di retaggi culturali. La rivoluzione industriale, a suo tempo, rese necessaria una spartizione marcata dei ruoli: la donna in casa a gestire la famiglia e l’uomo al lavoro. E’ con l’ingresso della donna nel mercato del lavoro che sorse il problema della conciliazione tempi della famiglia con quelli del lavoro. Le battaglie femministe se hanno avuto il merito di far emergere il forte gap di genere, hanno però in certi casi esacerbato le posizioni e le rivendicazioni: le donne per vedere riconosciuto il loro ruolo e il diritto di potersi realizzare in ambito professionale, hanno dovuto adattarsi ad un modello lavorativo strutturato su canoni prevalentemente maschili, con orari di lavoro pesanti e premialità legate in massima parte alla quantità di tempo passato in azienda e alla totale dedizione alla sua mission. Il prezzo di questa conquista è stata la difficoltà se non la rinuncia delle donne alla scelta della maternità. Gli effetti li percepiamo oggi in quanto ci troviamo in un Paese – l’Italia – che si trova agli ultimi posti nel mondo in quanto a tasso di natalità.
In un articolo scritto dal prof. Stefano Zamagni e che viene ripreso dallo studio fatto, si afferma che sarebbe da preferire il termine “armonizzazione” a conciliazione, all’interno di un rapporto familiare dove le responsabilità siano ugualmente distribuite tra uomo e donna senza distinzione tra “lavoro come spazio non familiare” e “famiglia come spazio del non lavoro”. Da un’altra partel l’Osservatorio del Politecnico di Milano[1] ha calcolato che in media l’adozione di un modello “maturo” di smartworking aumenterebbe la produttività in un 15%. Gli strumenti di smartworking, di lavoro flessibile sarebbero un modo per stimolare la parità sostanziale e la produttività. Come membro di Value@Work, quali sarebbero i criteri da applicare nelle aziende affinché questi strumenti e misure producano l’effetto desiderato?
Le donne quando si sentono ascoltate e rispettate nei loro bisogni, sono capaci di rendere lavorativamente molto di più: aumenta la produttività e la motivazione al lavoro, diminuisce l’assenteismo, c’è una maggiore fidelizzazione al lavoro. Lo smartworking, anche detto lavoro agile, ben si presta a una valorizzazione del rapporto di fiducia con il lavoratore, in quanto la flessibilità del luogo di esecuzione della prestazione lavorativa ed il conseguente minor controllo sul tempo della prestazione si accompagna idealmente a una valorizzazione degli obiettivi del dipendente. Tale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro si sta dimostrando una risposta efficace per agevolare l’”armonizzazione” tra famiglia e lavoro: nel 2017 gli Smart Worker in Italia sono arrivati a quota 305.000 – l’8% del totale dei lavoratori – e si distinguono per maggiore soddisfazione per il proprio lavoro e maggiore padronanza di competenze digitali rispetto agli altri lavoratori. L’adozione dello strumento cresce soprattutto nelle grandi imprese, dove peraltro risulta più facile applicare il modello. Per le PMI c’è curiosità, interesse, ma spesso prevale la rinuncia in quanto non applicabile a piccole realtà aziendali.
Lo smartworking come tutti gli strumenti ha aspetti positivi, ma non è applicabile a tutti i tipi di lavoro. Ritengo pertanto che, proprio per dare opportunità a tutti i comparti dell’economia e permettere una migliore armonizzazione tra tempi della famiglia e tempi del lavoro sia importante elaborare nuove strategie lavorative, strumenti contrattuali e di lavoro, sostenibili e concreti a livello operativo e che siano orientati alla parità di opportunità tra uomini e donne.
Oggigiorno si parla con tantissima frequenza delle soft skills. Di fatto queste competenze sono più richieste al posto di una leadership con forti tratti maschili, soprattutto per gestire alcuni grandi fenomeni che investono il mercato mondiale. Quale sarebbe il contributo femminile in quest’ambito?
Ancora oggi circa l’87,4% dei manager nell’industria è uomo. Segno di una difficoltà delle donne ad accedere e rimanere a questi livelli aziendali se si ha anche la responsabilità di cura della famiglia. Le soft skills costituiscono un valore aggiunto nell’assetto aziendale. Gestire lo stress, riconoscere e risolvere un conflitto, chiedere aiuto, essere assertivi: sono competenze che non esistono nei curriculum, ma che per le imprese sono fondamentali. Non sono specifiche rispetto al tipo di lavoro e sono fortemente connesse alle qualità e agli atteggiamenti personali (fiducia, disciplina, autogestione), alle abilità sociali (comunicazione, lavoro in gruppo, gestione delle emozioni) e gestionali (gestione del tempo, risoluzione di problemi, pensiero critico). Spesso queste competenze si potenziano attraverso opportuni corsi di formazione, o invece possono essere acquisite dai neogenitori nell’ apprendistato con i loro figli. Su tali competenze le donne sono capaci di dare il contributo più alto. Il loro apporto si traduce inoltre in una maggiore umanizzazione dei rapporti e della qualità della vita in azienda. Si tratta di vedere le differenze di genere come un fattore di ricchezza e un’opportunità e non come un gravame.
[1] Osservatorio Smart Working-Politecnico di Milano in L’Altra Dimensione del Management. Il valore aggiunto delle donne tra famiglia, impresa e società. Federmanager. Roma 4 maggio 2018