Le conseguenze della pandemia sul sistema nervoso
Dal 1996, la Dana Foundation ha promosso la Settimana mondiale del cervello, un evento filantropico cui aderiscono decine di Paesi, con lo scopo di favorire la consapevolezza e l’integrazione dei saperi sull’organo più affascinante e complesso del nostro corpo. Quest’anno, in Italia, l’iniziativa è stata accolta dall’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum (UPRA) che, in collaborazione con l’Università Europea di Roma, dal 15 al 19 marzo ha organizzato e ospitato gli interventi di alcuni tra i maggiori esperti delle frontiere di ricerca sul cervello.
Un tema centrale affrontato in quei giorni riguardava le conseguenze della pandemia sul nostro sistema nervoso. Numerosi studi mostrano che i periodi di isolamento forzato e le limitate interazioni sociali hanno compromesso il benessere mentale di ampie fasce della popolazione. Per rendere l’idea della portata del fenomeno, durante l’ultima ondata di pandemia si è stimato che, per i giovani tra i 18 e i 34 anni, sei persone su dieci (il 64 per cento) fossero a rischio di depressione, un numero che è quadruplicato rispetto a prima del COVID-19.
Si è quindi discusso della cosiddetta sindrome “Long-COVID”, ovvero di sintomi che perdurano oltre la guarigione dal virus e che, secondo l’Oms, interessano un quarto della popolazione di ammalati. Molti di questi sintomi sono di tipo neurologico e neuropsicologico, come la perdita dell’olfatto, la sensazione di una minore efficienza mentale, problemi di insonnia, un senso perenne di confusione o di ottundimento. Grazie agli sforzi congiunti di neuroscienze, ingegneria, della scienza dei dati e della scienza dei materiali, dell’informatica e, in particolare, dell’intelligenza artificiale, negli ultimi decenni le neurotecnologie hanno compiuto balzi da gigante. Già ad oggi disponiamo di procedure e dispositivi che ci permettono di visualizzare il cervello e la sua attività in modo incredibilmente dettagliato, indicandoci se siamo in presenza di una patologia e di che tipo. L’uomo e la macchina sembrano parlarsi sempre più da vicino. Le protesi robotiche oggi si muovono col pensiero, trasformando l’attività del nostro sistema nervoso in un comando. La neuroprostetica sviluppa dispositivi capaci di sostituire o migliorare specifiche funzioni del sistema nervoso, ripristinando input sensoriali (si pensi agli impianti cocleari) oppure eliminando i sintomi di malattie neurodegenerative o psichiatriche. La stimolazione cerebrale profonda, ad esempio, già da diversi anni è impiegata con successo nel trattamento del tremore e in certe forme di depressione grave resistente ai farmaci. Ibridazioni tra il nostro cervello e reti neuronali artificiali sono già in fase di sviluppo e, plausibilmente, saranno disponibili in un prossimo futuro per compensare deficit cognitivi di vario tipo, ma anche per potenziare e accrescere le facoltà della persona.
Nell’ultima giornata della Settimana mondiale del cervello è stato presentato al pubblico l’Istituto Internazionale di Neurobioetica (IINBE), fondato a ottobre dello scorso anno su iniziativa di un gruppo di ricerca interdisciplinare, coordinato dal Prof. P. Alberto Carrara. Prendendo l’avvio dagli studi e dal pensiero di Anneliese Pontius, neuropsichiatra di origini tedesche cui si deve la nascita del termine neuroetica, l’Istituto si propone di favorire una riflessione sistematica informata sulle neuroscienze, le altre scienze correlative del cervello e le loro interpretazioni. Gli scopi non sono meramente intellettuali e accademici. È tempo di trovare risposte concrete a problemi concreti, e di inedita complessità.
Le possibilità pratiche delle neurotecnologie vanno moltiplicandosi ad una velocità impressionante. Gli investimenti sono in vertiginoso aumento e gli sviluppi dei prossimi anni non interesseranno solamente l’ambito terapeutico e riabilitativo ma, in modo verosimile, saranno estesi al mondo dello sport, dell’istruzione, della comunicazione, del marketing, dei videogiochi.
Come ci ricorda Papa Francesco nella lettera Humana communitas, indirizzata al Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, la tecnica odierna puó intervenire nella materia vivente ad un livello molto profondo. «Occorre quindi anzitutto comprendere le trasformazioni epocali che si annunciano su queste nuove frontiere, per individuare come orientarle al servizio della persona umana, rispettando e promuovendo la sua intrinseca dignità».
Per la medicina moderna e, su questa scia, la legge (n. 578/1993), a tracciare il confine tra una persona ed un cadavere è la cessazione irreversibile di tutte le funzioni del cervello. Ogni pensiero, ogni sensazione, ogni emozione e ricordo, ogni scelta più profondamente umana è un riflesso, sul piano biologico, di quello che c’è e che accade nell’angusto spazio di una scatola cranica. Per quanti possano essere i neuroni e quante le loro interconnessioni, ciascuno di noi ne possiede un numero finito. Che succederebbe se riuscissimo a mappare per intero quell’esiguo spazio, in cui esiste la traccia di tutto ciò che sentiamo, ricordiamo, pensiamo e vogliamo? Molti pensano che sia solo questione di tempo perché ciò accada. Potremmo, a quel punto, manipolare la mente a nostro completo piacimento? Collegati via cavo riceveremmo il segnale, direttamente nel nostro cervello, corrispondente ad ogni genere di esperienza che potremmo desiderare. Forse, entro certi limiti, si vorrebbe comunque mantenere un certo grado di imprevedibilità, affinché non ci si annoi mai veramente. Eliminare ogni ricordo spiacevole e vivere finalmente la vita dei nostri sogni. Se davvero raggiungessimo una conoscenza definitiva di come funziona il nostro cervello e la tecnica per manipolare ogni aspetto della mente, su che basi sarebbe questa una vita farlocca? Ostinarsi a credere che le nostre scelte non siano predeterminate, che siano autenticamente libere, a quel punto, non sarebbe forse questa la vera illusione, un vanaglorioso moralismo?