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Sperare e programmare il futuro, partendo dalla riscoperta dell’individuo.

Intervista a Gabriele Diomedi, quality engineer a Faurecia e past student della Summer School “La sfida umana nell’epoca della trasformazione digitale promossa dall'Istituto di Studi Superiori sulla Donna dell'APRA in collaborazione con Prioritalia

   width=Come ti poni rispetto all’emergenza che stiamo vivendo, come affronti questa sfida inedita? Parlaci dalla tua esperienza personale: dove ti trovi, come utilizzi le tecnologie per lavorare e/o studiare. Personalmente non sono rimasto sorpreso dall’evolversi degli eventi: viviamo in una società estremamente interconnessa ed interdipendente. Ciò ha portato non solo al diffondersi estremamente veloce della malattia (anche grazie alle sue caratteristiche peculiari) ma pure ad una immediata ripercussione negativa sull’economia, dovuta spesso alla delocalizzazione delle produzioni industriali, specie delle materie prime e dei componenti, rispetto al mercato che vanno ad alimentare. A livello personale già da due settimane ho smesso di andare al lavoro in quanto prima è stata decisa la sospensione degli stage e successivamente è stato scelto dall’azienda di sospendere la produzione temporaneamente. Benché il mio ruolo (Quality Engineer) sia strettamente legato alla produzione e quindi richieda la presenza fisica in azienda, sono riuscito a terminare un incarico già assegnato attraverso l’utilizzo di Skype ed Office. Per quanto riguarda la vita personale ho  deciso di dedicarmi alla lettura e allo svolgimento di piccoli lavori domestici rimasti arretrati; cerco per quanto possibile  di vivere una vita “analogica”. Come credi stia cambiando e cambierà il rapporto tra gli esseri umani e le tecnologie, alla luce dell’improvvisa consapevolezza di essere vulnerabili, sia come individui sia come comunità umana? Questa malattia, come il contrappasso dantesco, ha preso tutto quello che di bello ha la comunità umana, l’interazione con gli altri, e lo ha trasformato in un’arma contro di noi. Le persone, nella loro solitudine obbligata dalla quarantena, si sono scoperte vulnerabili perché, prima di essere genitori, figli, amici, vicini etc. hanno riscoperto “forzatamente” la dimensione individuale, che nella nostra società si tende a ignorare. Se è vero che in gruppo siamo più forti, in queste situazioni ci ritroviamo a poter contare solo sulla nostra forza, solo su noi stessi: alcuni fardelli poi sono più pesanti di altri, come la malattia o la morte che questa malattia sta causando. La tecnologia non è la soluzione a tutto: per quanto ad esempio in questo momento sia utile a farci rimanere in contatto “virtuale” non può cancellare la nostra natura di esseri viventi con le relative fragilità, a maggior ragione di fronte ad un rischio puramente biologico. Non solo: se non attentamente ponderata questa può paradossalmente aumentare a livello esponenziale delle situazioni negative: ad esempio la già alta contagiosità del virus Covid-19 è stata velocizzata dalla facilità e ritmo degli spostamenti intercontinentali, permessi dagli aerei. Spero che, specialmente in Italia dove c’è una grande disparità di diffusione dei mezzi e delle competenze tecnologiche, spesso usati poi in modo “frivolo” se non poco consapevole, si venga a creare una maggiore consapevolezza delle persone su quelle che sono le vere necessità tecnologiche, i veri strumenti per cui lottare e su cui investire: ottenere un documento dal proprio comune senza dover far file e prendersi una giornata di permesso dal lavoro è la vera rivoluzione, non prendere un like per una foto. Quali scenari negativi temi maggiormente, per il prossimo futuro, e quali scenari positivi invece auspichi, sul piano culturale, sociale ed economico? A differenza delle pandemie del passato i danni maggiori non saranno causati da una drastica diminuzione della popolazione ma più indirettamente dall’indebolimento di un sistema economico già sofferente e costituzionalmente fragile, specie come quello italiano. Oltre alla quasi certa recessione che ci aspetterà per molti mesi (anni?) a venire, temo che le persone diverranno ancora più dipendenti dalle gratificazioni date dagli strumenti elettronici, diventando più difficile ottenerle nella vita “reale” a causa della crisi economica. La storia insegna che quando si oltrepassa un limite, magari per una giusta causa, è molto difficile che poi si possa facilmente tornare indietro. Questa pandemia probabilmente metterà le basi ad un utilizzo ancora più intenso e meno democratico dei nostri dati per sorvegliarci e condizionarci, non solo da parte delle aziende fornitrici dei servizi, ma anche da parte delle istituzioni sul modello di quello che avviene in Cina ed in altri paesi non democratici, vedi ad esempio la proposta di tracciare gli spostamenti delle persone o segnalare il possibile infetto. Per quanto riguarda gli aspetti positivi, come dice un vecchio adagio, il valore si vede nei momenti di difficoltà. La crisi ci ha mostrato come certi comportamenti e bizantinismi all’italiana siano di fatto solo uno strumento per il mantenimento delle rendite di posizione e di prevaricazione su altre categorie più deboli. Molti altarini sono saltati: sarà d’ora in poi molto più difficile spiegare che ad esempio il telelavoro (per chi può), seguire le lezioni online ad esempio universitarie, la richiesta di documenti o certificati, non si possono fare per via telematica. Se si è riuscito a farlo con pochissimo preavviso in una situazione di emergenza, lo si può di certo rendere uno standard con degli investimenti strutturali adeguati come avviene in molti altri paesi a pochi Km da noi. Quali sono le priorità su cui concentrarsi quando l’emergenza lascerà il posto alla ripresa di una nuova normalità, quando potremo ricominciare a uscire da casa, studiare e lavorare non solo a distanza? A livello economico mi auguro ci sia un’analisi critica dei veri benefici di quest’economia “globalizzata”: almeno per quanto riguarda i beni essenziali, anche non materiali in caso di emergenza (come possono essere i software di comunicazione ad esempio), sono dell’idea che non si può dipendere da altri stati o aziende private (magari dall’altra parte del mondo), poiché la distanza e la delega non fanno che amplificare le incognite e quindi i rischi. Dal mio punto di vista la politica, almeno quella italiana, si è comportata bene, anche meglio di tanti altri paesi da cui normalmente veniamo giudicati “poco affidabili”: sicuramente mi auguro si apra un dibattito serio su quanto le troppo marcate differenze tra zone e regioni del nostro paese a livello di ricchezza, di industrializzazione, di servizi non solo sia ingiusta, ma pericolosa. È indispensabile, come avvenuto in Cina, che se la produzione industriale in una zona viene bloccata per un qualsiasi motivo si può compensare aumentando la produttività nelle zone non colpite per evitare una catastrofe, anche economica. Questo discorso si lega in modo più indiretto anche alla mentalità del “produrre a tutti i costi” del sistema economico globale: la ricchezza di un paese non è determinata solo dalla quantità prodotta, ma anche dalla sua redistribuzione. “La forza di una catena sta nel suo anello più debole”: una ricchezza maggiormente diffusa è non solo più giusta ma più utile, se non meno pericolosa, che una completamente concentrata, poiché un qualsiasi evento magari piccolo ma intenso e localizzato che colpisca i detentori può vanificarla in un attimo; ciò vale per le industrie, ma anche per le persone. Quali opportunità stai cogliendo da questa crisi, quali elementi positivi credi poter trarre e come pensi di valorizzare l’esperienza, sul piano umano e professionale? Sicuramente, come penso faremo tutti, apprezzare quello che spesso diamo per scontato. La consapevolezza di quanto anche una banale e piccola azione possa influenzare gli altri mi ha portato a rivalutare alcuni miei comportamenti e convinzioni. Ho capito che è importante coltivarsi dei piccoli spazi per sé stessi anche a “scapito” delle richieste degli altri perché, per poter aiutare gli altri, dobbiamo essere prima di tutto forti come individui, e questo richiede coltivare sé stessi. Come credi che possa evolvere il divario cognitivo che separa la visione del modello di benessere delle generazioni più anziane da quelle più giovani, in seguito a questa crisi? I giovani di oggi vivono, a differenza delle generazioni più vecchie, nel limbo di essere nati nell’ultima fase del boom economico italiano e ritrovarsi a vivere nel peggior periodo economico dal dopoguerra: da una parte c’è l’esasperazione di non riuscire a costruire un futuro per noi stessi mentre dall’altro lato su di noi vengono messe (soprattutto dalle precedenti generazioni) delle aspettative immense sul risolvere problemi causati da loro e di cui non abbiamo colpa, senza che ci vengano dati gli strumenti o l’autorità per farlo. Siamo una generazione infelice, che si rivolge alla “felicità virtuale” ottenibile a basso costo sui social, portandoci ad essere ancora più passivi sulla nostra situazione ed alimentando quindi il problema. Questo evento che ci ha colpito ha lo stesso effetto di una secchiata di acqua fredda che ci riporta alla realtà. In una società in cui “avere” ed “apparire” è più importante di “essere”, venir privati per tanti giorni di piccole libertà come uscire a fare una passeggiata o incontrare un amico ci ha mostrato come la vera felicità non è data dal possedere qualcosa ma soprattutto da quello che ci permette di fare, dalle esperienze che ci permette di vivere e condividere con gli altri: a differenza del nostro avatar virtuale, se siamo colpiti da un virus “vero” e non informatico noi non abbiamo un backup. La mia speranza è che da parte delle vecchie generazioni, ahimè le più colpite da questa pandemia, ci sia una presa di consapevolezza, specie in Italia, su quanto il futuro del nostro paese e del mondo intero sia sulle spalle dei giovani e di come  questo fardello non ci debba essere legato al collo come un giogo ma messo sulle spalle come uno zaino da portare insieme con la nostra forza e la loro esperienza.

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