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Abstract conferenza Master Scienza e Fede: La questione della cosiddetta fecondazione artificiale

A cura della Prof.ssa Giorgia Brambilla
La ricerca della genitorialità può assumere i caratteri di una vera e propria ansia, se non addirittura un’ossessione che alcuni studiosi chiamano “sindrome da desiderio di figli”, che spesso si tramuta in una fede illusoria nella tecnologia. In realtà, la scienza, di fronte all’infertilità, propone non una cura ma un’alternativa. Tra le tecniche di fecondazione artificiale, infatti, solo alcune si propongono di superare l’ostacolo che impedisce la naturale generazione del figlio; il più delle volte l’ostacolo viene aggirato, escludendo dalla genitorialità effettiva un membro della coppia. La scienza, prende il suo posto. In questa conferenza, prima dell’analisi morale, analizzeremo il dato scientifico, tramite un excursus sulle tecniche di fecondazione artificiale; seguirà la riflessione antropologica sulla dinamica del “desiderio” e delle possibili risposte ad esso nell’ambito della genitorialità. Infine, faremo cenno alla cosiddetta “industria dell’infertilità”, presentando a grandi linee pratiche come la maternità surrogata e l’ovodonazione. Per comprendere meglio il percorso della conferenza, partiremo dalla considerazione sull’utilizzo dei termini: procreazione assistita o fecondazione artificiale? Il termine “procreazione”, che spesso si nota anche in letteratura o addirittura nei progetti di legge, in realtà è preso in prestito dalla Teologia e rappresenta la collaborazione degli sposi al progetto di Dio. Poiché, però, gli sposi non solo non sono gli unici protagonisti, ma paradossalmente partecipano all’azione di altri, i medici, che effettuano le tecniche e che dunque non “assistono” la coppia ma il più delle volte la “sostituiscono”, la dicitura “procreazione assistita” ci sembra inappropriata. La seconda espressione, dal punto di vista della nomenclatura più corretta, potrebbe tuttavia prestarsi a un errore. Quello cioè di catalogare tutte le tecniche di fecondazione assistita come sbagliate in quanto “artificiali”. La tecnologia, infatti, può essere lecitamente utilizzata in tanti campi della medicina e dunque anche in presenza di sterilità. L’artificialità assume un significato negativo, in questo ambito, quando la tecnica esclude le persone e le rimpiazza in una delle tappe del processo della fecondazione: dal prelievo del seme fino all’incontro dei gameti. Questo ci aiuta a capire allora che il problema non risiede solo nella fecondazione di tipo extracorporeo, ma anche in quella intracorporea. Infatti, quando l’attenzione della bioetica e della teologia morale cominciò a concentrarsi su queste metodiche, la semplice analisi dei fatti e della letteratura scientifica fece emergere con tutta evidenza una nuova dimensione di ciò che l’enciclica “Humanae vitae” aveva chiamato inseparabilità dei significati unitivo e procreativo della sessualità. Fino a quel momento l’inseparabilità si intendeva nel senso che le esigenze della unione amorosa si aprono a quelle della procreazione. Noi cercheremo di dimostrare, tramite una riflessione antropologica sulla genitorialità che la comunione coniugale, anche come intimità sessuale degli sposi, è l’unico ambito nel quale la vita umana nascente riceve la protezione e la cura richieste dalla dignità umana. Non esiste miglior protezione per la nuova vita di quella garantita dall’intimità dell’amore coniugale. Solo un atto che sia nel contempo atto di amore può mettere in moto degnamente il processo della procreazione umana. L’analisi etica che proporremo arriverà, quindi, alla conclusione che l’inseparabilità dell’attività procreativa dalla comunione di amore disinteressato in ambito coniugale «è un’esigenza della dignità della persona che deve nascere e, pertanto, un bene intrinseco, e non un semplice fatto biologico che potrebbe essere sostituito da una procedura tecnica quando ci fossero ragioni per farlo»[1]. [1] A.Rodríguez-Luño, Scelti in Cristo per essere santi, vol.3, pp.221-222.

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