a cura del Dott. P. Marco Staffolani, C.P.
Il miracolo si inserisce nella struttura della rivelazione cristologica, attraverso la doppia dinamica dei gesti e delle parole. Se il miracolo può essere definito come l’irruzione dell’Assoluto trascendente nella natura e nella storia, tale da sovvertirne le leggi e sconvolgerne l’ordine, e se nell’ordine antropologico può essere visto nella sua doppia valenza di
tremendum et fascinans relativamente alla dimensione sacrale che esso evoca dell’esistenza, si può accedere ad una piena comprensione del fenomeno soltanto rapportandosi alla fede cristologica, sviscerando l’intentio nascosta dall’autore di tali opere.
In tale prospettiva la potenza dell’evento (straordinaria ed imprevedibile) non smarrisce il soggetto creaturale soltanto se viene ricondotta a Cristo, il primo Miracolo, che con la sua vita e con l’apoteosi dell’evento fondatore (Passione-Morte-Risurrezione) vuole instaurare una relazione salvifica con il destinatario del miracolo.
Il rapporto Miracolo/miracoli è ben analizzato ne
L’action di Blondel: l’atto particolare del Salvatore, contingente, limitato allo spazio e al tempo, dischiude il velo dell’universale e dell’infinito. Il miracolo funge da porta sensibile (necessaria) perché la volontà entri in contatto con una realtà spirituale che sta prima e al fondo delle cose stesse.
In tale ottica, seppur la ragione, operando attraverso la scienza, può dare (parziali) descrizioni delle regolarità che si trovano nella natura (leggi fisiche), l’uomo è chiamato a fuggire l’idolatria e l’assolutizzazione di tali descrizioni quando sono elevati a paradigmi universali (determinismo).
Il miracolo rimanda al paradosso dell’ordinarietà/straordinarietà dell’esistenza in cui l’Assoluto irrompe in maniera velata. L’ordinarietà è nell’autonomia del creato che è voluta e pensata dal creatore come
ordine nello spazio e nel tempo, per l’esercizio, vero ed incondizionato, della libertà di tutte le sue creature, nascondendosi ad esse nello stupore di un’armonia che precede e produce ogni creatura.
Tale autonomia, però, non impedisce e nemmeno contraddice l’entrata dell’Eterno nel tempo, che per cambiare le sorti d’una umanità ferita dal peccato, senza togliere la libertà originale, assume la finitezza come nuovo ed ultimo paradigma di salvezza.
L’interpretazione del miracolo è strutturalmente lasciata come ambigua, non tanto su un piano di comprensione intellettuale quanto piuttosto sulla prassi e sulla volontà: esso contiene in sé tanta luce quanta necessaria per riconoscerne l’Autore, ma anche abbastanza tenebra perché si “necessiti” la fatica della scelta per tale Autore, che vi sia cioè la responsabilità della persona, che con il suo atto di adesione si muove liberamente verso l’Eterno.
Nella croce il portento dei miracoli, che faceva trasparire l’attributo dell’onnipotenza divina, lascia il passo alla “debolezza” assunta da Dio. È soltanto così che viene rivelato il volto nuovo di Dio, sconosciuto agli uomini, che essi non potevano prevedere. I miracoli e in particolare il primo Miracolo assume dunque la caratteristica di segno di contraddizione, strumento di vaglio tra coloro che vogliono credere, e coloro che si oppongono.
Interessanti in questa prospettiva appaiono i segni del sepolcro vuoto e delle apparizioni, che testimoniano la resurrezione senza che questa possa essere sperimentabile/tangibile in maniera diretta. La risurrezione diventa punto metastorico, intorno al quale si deve reinterpretare tutta la valenza della creazione. Dopo la risurrezione c’è un prima e un dopo nel tempo.
I miracoli assumono così una connotazione di eventi provvidenziali voluti da Dio che non solo avvia la creazione (il buffetto cartesiano), ma è presente (sempre) verso di essa, come signore dello spazio e del tempo, nella novità/connotazione di un Dio agape, intrinsecamente trinitario. Tale dimensione agapica si prolunga poi nei sacramenti della Chiesa, che continua l’azione del Cristo affinché l’uomo risponda a Dio con un assenso reale (Newman).