C. D’Urbano – La vita consacrata comunitaria: proposta demodè?

La vita consacrata comunitaria: proposta demodé?

 

Posso parlare con te mio Dio. Posso?

[…] Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno

un pezzetto di te, mio Dio.

Ti cerco in tutti gli uomini

e spesso trovo in loro qualcosa di te.

E ora cercherò di disseppellirti dal loro cuore, mio Dio

(Etty Hillesum)

 

«Noi, dunque Costantino Augusto e Licinio Augusto abbiamo risolto di accordare ai Cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede, affinché la divinità che sta in cielo, qualunque essa sia, a noi e a tutti i nostri sudditi dia pace e prosperità».

L’epoca delle persecuzioni era terminata: nel 313, col cosiddetto Editto di Milano, gli augusti Costantino[1] e Licinio dichiaravano il cristianesimo religio licita preparando la strada alla proclamazione del medesimo come nuova religione dell’Impero Romano (380, Editto di Tessalonica). Quali furono i frutti della sospirata pace? Certamente un’irradiazione quasi immediata del messaggio cristiano in tutto il mondo allora conosciuto, ma anche un’ambigua alleanza col potere temporale, “sotto buona intenzion che fè mal frutto[2], e un indebolimento di quell’ardore di fede che aveva caratterizzato i cristiani dei primi secoli.

Se da una parte, dunque, la Chiesa godeva finalmente un tempo di quiete e di grande espansione, dall’altra cominciava a scendere ad inevitabili compromessi mondani attraverso onori e cariche che venivano tributati ai suoi ministri. I più alti valori dello spirito ormai non erano più assicurati, paradossalmente, dal rischio del martirio, anzi era divenuto un privilegio potersi professare seguace di Cristo. La radicalità del messaggio evangelico, il primato di un Regno che non è di questo mondo, l’assoluto di Dio… tutto questo era fortemente minacciato dal connubio stato-Chiesa e numerosi cristiani sentirono l’esigenza di ritornare a testimoniare con la vita, sebbene non più col sangue, che il resto è assicurato dalla Provvidenza quando il primato è dell’Unum necessarium.

Nascevano così piccoli raggruppamenti di semplici fedeli desiderosi di ritirarsi dal mondo per poter seguire Cristo in modo più radicale, ritornando alla pratica della vita comune della Chiesa primitiva, secondo il messaggio degli Atti degli Apostoli.

Le forme in cui questo avvenne furono varie, ma tutte erano accomunate dal medesimo desiderio di portare avanti l’eredità lasciata dai martiri della fede: perdere ogni cosa per seguire Cristo e ‘stare con lui’, e poter coltivare il cammino spirituale che nel mondo rischiava di infiacchirsi ed annacquarsi.

I primi monaci[3] cominciavano il loro itinerario ascetico ritirandosi, dapprima soli, in qualche luogo appartato, lontano dalla urbanitas, legata alle ricercatezze e alle vanità profane, ed in genere in località remote ed inospitali; ma presto attorno a loro finivano per riunirsi altri discepoli attirati dal medesimo ideale di sequela Christi e di contemptus mundi; in breve tempo il cenobitismo divenne l’esperienza religiosa più diffusa[4]. La vita comune organizzata attorno ad un maestro spirituale, l’anziano, si presentava come la soluzione ottimale per affrontare, insieme, la sfida lanciata ad un mondo che, seppur apparentemente religioso, in realtà andava troppo secolarizzandosi.

 

“Amice ad quod venisti?”[5]

Sono trascorsi da allora quasi due millenni eppure nella scelta di un ‘vivere alternativo’ e comunitario non è del tutto estranea ancora una profonda insoddisfazione per quello che la società offre come soluzione di vita.

Chi arriva in comunità porta in sé il desiderio di una pienezza che le relazioni ordinarie, magari pur belle e gratificanti, hanno lasciato incompiuto, o non del tutto appagato; ciò che si chiede – più o meno consapevolmente – è quindi il bisogno di una relazione che dia senso alla vita, per la quale valga la pena spendersi: relazione con Cristo, prima di tutto (almeno negli ideali proclamati), ma mediata da un’assemblea di altri uomini e/o donne. La motivazione d’ingresso dunque non è pura (e non diventerà mai del tutto trasparente neppure in seguito): nel soli Deo vacare si confonde inevitabilmente e naturalmente anche la ricerca dell’umana compagnia, il bisogno di vincere la solitudine, di colmare il vuoto interiore. Un aspetto particolare, ontologico, delle motivazioni sottostanti l’ingresso in comunità è il senso di incompletezza personale in relazione all’offerta sociologica ed affettiva del mondo nel quale ci si trova a vivere.

Se l’individuo porta con sé, all’inizio e lungo il proprio cammino vocazionale, non solo ideali di autotrascendenza, ma anche domande esistenziali (sul significato della vita) e bisogni (di affetto, di relazioni) la comunità può offrire ancora oggi una risposta di senso? Quale? Non è ormai fuori moda il vivere insieme?

 

Proviamo ad articolare brevemente una risposta, riflettendo sugli aspetti regressivi e progressivi della comunità.

Occorre dire innanzitutto che “non è la comunità [in se stessa] che fa crescere o regredire[6] ed è necessario che la persona sia in grado di internalizzare, cioè di assumere i valori proclamati non per compiacenza (evitare la sofferenza e/o cercare soddisfazione), né per identificazione (ricerca di stima personale), ma in modo da appropriarsene liberamente e incarnarli nel proprio quotidiano. Qualora nel singolo venisse a mancare quel minimo di capacità di maturare, egli non saprebbe rielaborare gli stimoli offerti dalla comunità e quindi non si porrebbe neppure la questione sul senso e sul contributo dell’esperienza di gruppo.

Spesso la comunità si offre, più o meno consapevolmente, quasi come un “sostituto dell’oggetto sacro[7], con la tacita pretesa di gratificare la persona, di colmare il suo anelito di pienezza e in ultimo risolvere la lotta contro la sua solitudine ontologica e vocazionale. Tuttavia pensare in questi termini la comunità è ingannare le attese di chi entra[8] o comunque aumentare quella parte di false aspettative o di bene apparente – non di ‘male’, ma di bene parziale non rispettoso dell’integralità della persona – con le quali si sceglie la vita comunitaria. Col tempo, la persona che entra in comunità, col desiderio di Dio misto al naturale desiderio di famiglia, rischia di ridurre il primo (sete di infinito) al secondo (bisogno di rapporti umani profondi).

Ciò che può accadere, in tal senso, è che ella si adatti ‘nidificando’ nel gruppo, e addormentando quella sana tensione che, se assunta consapevolmente, le farebbe avvertire la dimensione della solitudine a fronte di relazioni non sufficientemente gratificanti o non abbastanza affettuose, o che i bisogni non appagati diventino frustranti e, col tempo, la vita consacrata deludente.

Occorre allora comprenderla ed abbracciarla con un altro sguardo.

E qui veniamo agli aspetti di forza e ‘vincenti’ della vita consacrata comunitaria, la quale può favorire e stimolare i processi di crescita dell’individuo, offrire l’opportunità per chiarire i valori e renderli più attraenti, può disporre alla responsabilità…

Certo chi segue Cristo, nota Godin, (ancor più se in un cammino di radicalità evangelica) deve sapere che ciò non può mai avvenire in modo pacifico, il viaggio, anzi, è conflitto e lotta perché c’è uno scarto incolmabile fra il desiderio di amore e quello spazio vuoto scavato da un amore che le opere non colmano mai[9]. Rimane sempre un’insufficienza fondamentale rispetto all’Altro da sé, che non può e non deve essere ‘religiosamente colmata’.

La comunità, a partire da questa consapevolezza, potrebbe diventare proprio quello spazio essenziale ed insostituibile per apprendere e sperimentare relazioni autentiche, non compensative, ma capaci di accoglienza e di ascolto. “Se è infatti necessaria una certa maturità, per vivere in comunità, è altrettanto necessaria una cordiale vita fraterna per la maturazione del religioso. Alla eventuale constatazione di una diminuita autonomia affettiva nel fratello o nella sorella, dovrebbe venire la risposta della comunità in termini di un amore ricco e umano, come quello del Signore Gesù e di tanti santi religiosi, un amore che condivide le paure e le gioie, le difficoltà e le speranze, con quel calore che è proprio di un cuore nuovo che sa accogliere l'intera persona…[10].

La comunità potrebbe e dovrebbe essere il luogo in cui si impara la “capacità di essere solo in presenza di un’altra persona”, direbbe Winnicott[11], cioè quella solitudine matura, propria di chi, nel confronto e attraverso l’affetto di altri fratelli e sorelle, è divenuto capace di habitare secum, di attendere la venuta di chi è già e non ancora, il Presente-Assente. Capace, quindi, di portare il peso di una nostalgia che non può e non deve essere compensata, ma che crea nell’individuo uno spazio di desiderio per il ritorno promesso mentre, nello stesso tempo, lo rende più capace di comunione disinteressata, vera, non solo apparente, con tutti.

 

L’esperienza comunitaria dunque non solo non è superflua, essa, anzi, col suo essere controtendenza rispetto all’individualismo dilagante è oggi quanto mai necessaria come luogo di apprendimento della gratuità dell’amore, della costanza nelle relazioni, della capacità di donarsi e di riceversi dall’altro, che la società circostante, con la sua liquidità, le sue leggi e i suoi ritmi, difficilmente dà all’essere umano la possibilità di sperimentare.

La vita consacrata comunitaria è la grande sfida del presente…tutt’altro che sorpassata! Testimonianza e profezia. Antidoto anti-narcisista. Custode e messaggera di solidarietà, che nel mondo è ormai in crisi[12]; interlocutrice adulta dei suoi contemporanei ‘esterni’, a cui offre una valida alternativa sia rispetto ad un’emozionalità superficiale che all’isolamento egoistico.

Il vuoto creato da relazioni, che per quanto belle non costituiscono ancora la risposta ultima all’inquietudine del cuore umano, non sarebbe, allora, occasione per mandare all’aria il vivere insieme, ma si offrirebbe come spazio di richiamo alla presenza di un Terzo, il vero ‘garante’ e modello dei nostri incontri interpersonali.

 



[1] La tradizione fa risalire la conversione di Costantino (molto discussa nella sua autenticità) al 312 quando, durante una battaglia contro Massenzio, sul Ponte Milvio, egli avrebbe visto nel cielo un segno luminoso: una croce con la scritta “In hoc signo vinces”. Affiancando all’aquila romana il vessillo della croce Costantino, il mattino seguente, avrebbe così affrontato e sconfitto il nemico.

[2]L’altro che segue con le leggi e meco/ sotto buona intenzion che fè mal frutto/ per cedere al pastor si fece greco/ ora conosce come il mal dedutto/dal suo bene operar non li è nocivo/avvenga che sia ‘l mondo indi distrutto”. Paradiso, Canto XX.

[3] La parola nella sua origine etimologica non indica una particolare categoria di consacrati e neppure i ‘solitari’ come si è portati a  pensare, ma coloro che cercano l’unità del cuore, secondo le parole del salmo, “donami un cuore semplice – unificato, letteralmente – che tema il tuo nome” (Sl 86,11).

[4] Cf. Penco G., Il Monachesimo, Mondatori, Milano 2000, pp.15-31.

[5] È la domanda che la Regola di Benedetto (LX, 3) fa porre ai sacerdoti che aspirino alla vita monastica, ma che, in altra forma, rivolge anche ad ogni nuovo venuto “si revera Deum quaerit” (LVIII, 7).

[6] Manenti A., Vivere insieme. Aspetti psicologici, EDB, Bologna 1991, pp.31-33.

[7] O’ Dea T.F., Sociologia della religione, Il Mulino, Bologna 1966, p.152.

[8]To tell them that the relationships within the community provide the answer to their wish for closeness misleads them”. McAllister R.J., Living the vows. The emotional conflicts of Celibate Religious, Harper and Row, San Francisco 1986, p.46.

[9] Cf. Godin A., Psicologia delle esperienze religiose, Queriniana, Brescia 1983. p.219.

[10] Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, La vita fraterna in comunità, 2 febbraio 1994, n.37.

[11] Winnicott D., Sviluppo affettivo ed ambiente, Armando, Roma 200316, p.35.

[12] Cf. Cantelmi T., Una pericolosa enfasi. Il rischio di comportamenti emulativi e di rancori sociali, SIR, Servizio Informazione Religiosa, 10 maggio 2012.

 

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