Michela Pensavalli – MATURITÀ AFFETTIVA E LE SUE APPLICAZIONI

La maturità psicoaffettiva è un traguardo da raggiungere attraverso diversi gradi e livelli di maturità. Questa comprende la libertà personale che comporta il superamento dei propri conflitti dell’infanzia e dell’adolescenza, la capacità di perseguire i valori del proprio progetto di vita senza condizionamenti interni ed esterni ed una sana autonomia con queste caratteristiche:

üRapportarsi con le persone con un senso di rispetto verso di loro

üNon lascarsi condizionare dai sensi di inferiorità

üRiconoscere i diritti propri e quelli altrui

üAffrontare le situazioni con un senso di responsabilità

üAccettare e superare serenamente le situazioni di abbandono

üCapacità di affrontare la vita rimanendo coerenti e fedeli ai propri impegni indipendentemente dalle pressioni esterne. (dipendenza infantile nei confronti dei genitori o nelle relazioni con i superiori).

üIl nevrotico vive rapporti di tipo conflittuale e contraddittorio con l’autorità: o assume un atteggiamento passivo o di ribellione contro le persone contro la vita religiosa in sé e contro Dio stesso.

üHa atteggiamenti difensivi e aggressivi fino ad avere forme paranoiche (manie persecutorie, sospetti infondati sulle persone, atteggiamenti vittimistici, interpretazioni deliranti). Diventa lui stesso un nemico da cui difendersi.

Inserimento nel gruppo

 

L’inserimento nell’ambiente comunitario e lavorativo è possibile solo dopo aver superato il narcisismo adolescenziale e per chi ha una disposizione oblativa nei confronti degli altri. Alcuni sintomi di immaturità sociale sono:

üPaura di avere contatti con persone del sesso opposto.

üAngoscia nel dare suggerimenti ad altri

üRicorso all’aiuto soprannaturale per dispensarsi da una responsabilità a livello umano

üEsercizio di apostolato limitato solo al ceto femminile, ai piccoli, agli anziani o agli ammalati.

üLa difficoltà avuta nel rapporto con le persone si ritrova anche nel rapporto con Dio.

In questo senso la suora immatura vede Dio come potenza magica nei momenti del bisogno, lo considera come una distributore di beni e aiuti, si sente abbandonata da lui quando non riceve risposta al suo bisogno infantile di avere amore.

Nel campo della sessualità, l’equilibrio e l’armonica integrazione di essa è possibile solo quando si è raggiunto l’orientamento verso il proprio sesso. Il vero e maturo atteggiamento della sessualità è di vivere l’amore come donazione verso gli altri.

 

Che cosa si può fare per divenire più capaci di apertura e intimità con se stessi e con gli altri? E come dovrebbero amare persone che hanno fatto una scelta di castità consacrata?

La fatica più grande per la persona è quella di arrivare all’autenticità. La comune vocazione cristiana – cioè la chiamata ad essere figli di Dio Padre che è il riferimento sostanziale quando si parla di autenticità dell’uomo – è vocazione all’amore teocentrico, e coinvolge la persona in ogni sua dimensione, attraversa il suo mondo emotivo e, se questo non viene riconosciuto, accolto e impegnato, non può ricevere risposta adeguata. E’ necessario pertanto impegnarsi a:

Accettare la propria solitudine

Come posso sapere chi sono, quali ricchezze personali posso condividere con l’altro, quanto sono libero e deciso nel donarmi, se non accetto la solitudine che mi mette a contatto con il mio Io più profondo, e rende possibile tale conoscenza? Se non si accetta la propria solitudine l’altro non è più vissuto come una scelta libera ma come una necessità, e la relazione non corre su binari di reciprocità responsabile ma finisce nelle secche di una dipendenza che non promuove il processo di crescita di nessuno. L’identità – poiché non è salda – non permette una reale come, e questa non favorisce l’approfondimento della propria identità.

Amare con realismo

Per non correre il rischio di rapporti fondati su una dipendenza immatura, è saggio non delegare mai a nessuna persona il compito e la responsabilità di farci felici. Perciò la nostra capacità d’amore non deve essere né a senso unico – cioè focalizzata sul rapporto privilegiato con una persona – né strumentale al nostro benessere immediato. Il percorso dell’autonomia chiede a ciascuno di trovare il modo di esprimere il proprio potenziale affettivo nelle forme più varie e consone alla propria personalità, anche oltre l’ambito della relazione privilegiata o d’amicizia.

Perciò è importante non nutrire aspettative irrealistiche sulle persone e sul rapporto con loro. Il che non significa non avere fiducia nelle persone, chiudersi o disertare il prossimo. Nessuna creatura può rispondere alla nostra sete di amore, felicità, pienezza di vita. Essa ha una radice assoluta: per questo non si può chiedere o aspettarsi da una persona ciò che solo Dio può dare. Si finirebbe per destinare quella relazione alla delusione e al fallimento.

Ricercare e vivere fedelmente un confronto con una persona di fiducia, cioè trovare un fratello o una sorella che, per la loro maturità e per la fiducia che ci ispirano, siano in grado di aiutarci offrendo un’occasione puntuale di confronto realistico. Aprire a questa persona il proprio mondo affettivo per crescere in una gestione adulta della propria intimità, per sviluppare la propria personalità a tutti i livelli. Confrontarsi con una persona capace – cioè d’esperienza, umana e spirituale, e di scienza insieme – aiuta a conoscere se stessi e vedere meglio i problemi, a leggere le circostanze della vita con occhio più distaccato, e così trovare risposte meno istintive e più rispondenti alla realtà dei fatti.

E poiché la nostra piena realizzazione sta nell’arrivare ad amare come ama Dio, è necessario chiedere a Lui di divenire capaci di amore, di vera intimità.

Amare nei fatti e nella verità

Aver fatto una scelta di castità non significa perdere la possibilità di esprimere una propria fecondità. Quella che non si realizza nella procreazione ma nel comunicare la vita e l’amore a coloro che si incontrano sul proprio cammino. Amare come persone consacrate nella castità, allora, non esime dall’investire la propria affettività in relazioni personali, ma conduce a riconoscere e incontrare persone con un nome e un volto preciso, unico. Così come conduce a riconoscere che il nostro valore personale, la nostra dignità, la nostra stessa salvezza passa attraverso l’esperienza di amore con il fratello.

Un amore sempre fecondo

 

Nella scelta di castità ci si mette in gioco per imparare, lungo tutta la vita, ad amare come ama Dio. Obiettivo che richiede un atteggiamento contemplativo e un investimento di tutta la potenzialità affettiva. Nella vita consacrata, l’amore si qualifica prevalentemente come scelta della volontà: una decisione di amare e donare tutta la vita a Dio e ai fratelli che coinvolge e orienta la vita emotiva, ma non si esaurisce in una gamma più o meno vasta di sentimenti amorosi.

 

Si vogliono amare confratelli e consorelle – e chiunque si incontra nell’apostolato – che non si sono scelti in seguito a un’esperienza di innamoramento o di particolare elezione, ma che si ricevono e a cui ci si dona per una decisione fondata sulla fiducia nell’amore; fratelli che si incontrano e con i quali ci si riconosce consegnati gli uni agli altri perché si manifesti nella loro vita la potenza trasformante dell’amore che viene da Dio.

Amare significa necessariamente essere perturbati. Non possiamo avere a cuore il bene dell’altro pretendendo di essere invulnerabili, di non provare – insieme alla ricerca del bene per l’altro – anche sensazioni, pulsioni, desideri che non sono tanto disinteressati, ma che fanno parte della nostra natura. Questa affermazione non vuole giustificare a una sorta di qualunquismo in riferimento alla vita affettiva, per cui va bene tutto e il contrario di tutto purché ci si senta bene emotivamente. C’è sempre un ritorno positivo, sia a livello emotivo che razionale, quando si cerca il vero bene dell’altro e di sé. Amare così, in modo casto, riempie, non svuota. Per amare in questo modo è necessario riconoscere il valore positivo del proprio mondo affettivo, operare un distacco da se stessi coltivare un atteggiamento contemplativo.

«L’amore del celibe deve essere un atto contemplativo. Ciò è vero non solo a motivo dei limiti fisici e spaziali propri dell’amore di un celibe (non posso essere sempre fisicamente vicino a quelli che amo, e neppure posso esprimere sessualmente il mio amore), ma anche perché nessun celibe sano oserebbe amare con particolarità e passione senza simultaneamente tenersi stretto alla mano di Dio».

Perciò possiamo affermare che solo la contemplazione può permettere a una persona consacrata di amare in modo appassionato ma anche libero: perché attinge all’amore del cuore di Dio che non conosce limiti.

 

Amare la vita

Una vita affettiva serena gode della consapevolezza elementare di essere vivi e capaci di comunicare vita. La nostra vita assume tutta la sua bellezza, il suo fascino, quando viviamo un atteggiamento realistico di valore personale. Nella vita di una persona consacrata non avrebbe senso un atteggiamento di distanza emotiva dalle altre persone (del tipo: «io non ho bisogno degli altri») perché non sarebbe secondo la nostra verità antropologica, dal momento che il dono di Dio giunge a noi sempre attraverso la mediazione di altre creature.

Così come non avrebbe senso ridursi a vivere in un coinvolgimento emotivo segnato da una esplicita dipendenza dagli altri (del tipo: «non saprei cosa fare se non ci fosse Tizio, Caio, la comunità...»);

sarebbe una mancanza di rispetto nei confronti della propria libertà, oltre che una sottovalutazione della propria dignità e unicità di persone.

           

Avere invece una sana consapevolezza del proprio essere creature, volute per amore e inserite in un progetto che è per la vita di tutta la creazione, aiuta a vivere con più convinzione la vita, come una ricerca appassionata di ciò che conta e in cui si crede. Allora le relazioni interpersonali potranno più facilmente sfuggire il pericolo di essere vissute per compiacere gli altri, e per ottenere così riscontri positivi di accoglienza, e conferme per la stima personale; o il pericolo di esprimere un senso di appartenenza rassicurante, vissuto come rifugio dal rischio di esporsi, senza lasciar emergere il meglio della propria personalità, che la vita, invece, chiede a ciascuno di esprimere

Come ha detto la beata Teresa de Calcutta: “Nell’ora della morte non saremo giudicati in base al numero di opere meritorie che avremo compiuto, né in base al numero di diplomi che avremo raccolto nel corso della nostra vita. Saremo giudicati per l’amore che avremo messo nelle nostre opere e gesti”

Michela Pensavalli

Hai bisogno di informazioni?

Contattaci