P. Luis Alfonso Orozco L.C. – SOLIDARIETÀ
Definizione
Il termine procede dal latino solidus, che designava una moneta d’oro solida, non variabile nel suo valore. Il concetto poi passò alla lingua moderna in parole come soldato, consolidare, solidità, e poi diviene solidarietà, cioè quella realtà ferma, solida, valida sempre; una struttura ben salda e armoniosa quale deve essere la famiglia e la vita sociale. Gli individui sono per natura solidali perché l’essere umano non è un’isola: ha bisogno degli altri.
La solidarietà è anche una vera e propria virtù morale, non un « sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti ». La solidarietà assurge al rango di virtù sociale fondamentale poiché si colloca nella dimensione della giustizia, virtù orientata per eccellenza al bene comune, e nell'« impegno per il bene del prossimo con la disponibilità, in senso evangelico, a “perdersi” a favore dell'altro invece di sfruttarlo, e a “servirlo” invece di opprimerlo per il proprio tornaconto[1].
Importanza
La persona sviluppa le sue capacità formando vincoli con altre realtà e soprattutto con altre persone, creando modelli di vita comunitaria solidale. Il più naturale e necessario dei vincoli umani è la famiglia. I gruppi sociali e le comunità di vita religiosa e consacrata si basano anche sulla virtù della solidarietà. Tale vincolo è possibile quando le diverse persone si uniscono a dei comuni valori umani e religiosi. La solidarietà mette in gara altre virtù quali la generosità, la dimenticanza di sé, la disponibilità, la cooperazione e partecipazione nelle imprese degli altri. Chi è solidale dimostra di essere generoso e non egoista, perché l’egoismo è il vizio che rovina le relazioni tra le persone. La persona solidale ha la capacità di partecipare e di saper rinunciare ai propri prospetti o punti di vista, per sviluppare i valori condivisi, specie in una comunità di vita consacrata.
Questa capacità è sottolineata anche da Giovanni Paolo II in Vita Consacrata, al n. 71 del documento quando afferma: “La dimensione umana e fraterna richiede la conoscenza di sé e dei propri limiti, per trarne opportuno stimolo e sostegno nel cammino verso la piena liberazione. Particolarmente importanti, nel contesto odierno, sono la libertà interiore della persona consacrata, la sua integrazione affettiva, la capacità di comunicare con tutti, specialmente nella propria comunità, la serenità dello spirito e la sensibilità verso chi soffre, l'amore per la verità, la coerenza lineare tra il dire e il fare”.
La capacità di generosità e di essere solidale con gli altri, che il cuore umano può albergare specialmente nelle disgrazie, è meravigliosamente grande, fino a raggiungere l’eroismo. Perché precisamente nelle circostanze estreme si dimostra la grandezza dell’anima umana. I santi e gli eroi sono le persone di cuore solidale e magnanimo al confronto del prossimo, e i loro gesti di amore hanno del sublime. Tra i mille casi che si possono proporre, c’è questo citato di seguito accaduto in un campo di prigionieri sovietico, dopo la seconda guerra mondiale. È lo stesso protagonista a raccontarlo nelle sue memorie scritte. L’episodio è luminoso e parla meglio da se stesso, quindi anche se risulta un pò lungo, vale la pena riportarlo integro. Il protagonista era un capitano spagnolo chiamato Teodoro Palacios e questo è il suo racconto:
“Così, dunque, ci trasportarono nella prigione del villaggio di Suzdal. Arriviamo alla prigione, installata nello stesso edificio che l'ospedale. Attraversiamo un ingresso, dove un uomo senza gambe cominciò a correre appoggiandosi sulle mani e sul sedere per vederci meglio. Venne in diagonale, attraversando tutto il patio a salti, come una rana, fino a situarsi vicino alla porta per la quale dovevamo entrare. Ci guardò in viso prima della chiusura dietro noi delle porte delle celle; ci guardò sorridente come dicendo: Che vi sia leve! E lui se ne andò. Oroquieta, Molero, Altura e Castillo furono rinchiusi insieme. A me mi lasciarono solo nella cella immediata… Nella parete antistante alla porta, un finestrino murato lasciava uno spazio aperto per la luce. Non erano molto allegre le prospettive che mi aspettavano. In questo stavo, quando all'improvviso successe un fatto insolito. Vicino a me, senza potere immaginare dove, una voce di uomo, molto bene temperata, incominciò a cantare marce militare spagnole. Lo faceva molto basso, come affinché nessuno lo sentisse salvo io, o per caso i miei compagni nella cella al lato. Battei la parete che mi separava dai miei compagni.
—Avete sentito?
—Sì...
Stiamo in silenzio. La voce misteriosa intonava la" Canzone del legionario." E, più tardi, il" Viso al sole." L'emozione con cui ascoltavamo quella voce amica, non è per essere descritta.
—Chi sei?— domandai. Dove stai?
—Sono l'uomo senza gambe che avete visto all'ingresso— disse la voce. E sto qui nel patio, vicino alla finestra murata.
—Sei spagnolo?
—No. Sono italiano— rispose—, ma vi ho riconosciuti per l'insegna. Avete fame?
—Si!
—Avete tabacco?
—No!
Sentiamo la sfregatura rapida delle sue mani sulle pietre, e l'immaginai correndo, a salti di batrace, alla ricerca di quello che chiedevamo. Al poco ritornò. Per il vuoto aperto nella finestra murata, mi tirò pane, tabacco, fosfori ed un grattino per infiammarli. Dovetti fare acrobazie per prenderli nell'aria, senza che cadessero a terra e si bagnassero.
—Grazie, grazie, amico. Dio te lo paghi.
Ci fu un silenzio. La gratitudine, quando è molto profonda, non trova alveo per esprimersi. Dalla cella al lato gli domandarono:
—Sei mutilato di guerra?
—No— rispose. Mi si congelarono le gambe il passato inverno, in Suzdal, e me le dovettero amputare. La conversazione non poté prolungarsi, perché qualcuno si avvicinava… Al terzo giorno, fisicamente disfatto, mi richiamarono a dichiarare… Un giorno, il nostro angelo guardiano, e mi riferisco al mutilato italiano, invisibile per noi come un angelo, e come un angelo generoso, ci diede un misterioso messaggio. Nelle latrine, aveva nascosto un presente per noi, da parte dei prigionieri italiani nel campo. Sembra essere che, per mezzo di alcuni tedeschi incarichi della raccolta di spazzatura dell’ospedale del paese, dell'accampamento e della prigione, il nostro affettuoso mutilato riuscì a trasmettere alle sue compatrioti notizie della triste situazione in cui ci trovavamo. E questi, mettendo a prova tutto l'ingegno della razza, realizzarono il miracolo di fiancheggiare la difficilissima dogana dell'accampamento per inviarci alimenti e caramelle per migliorare la nostra situazione. In una lattina, debitamente recintata con cerotto estratto dell'ospedale, c’era zucchero, pesce secco, tabacco ed altre delizie. La lattina fu appesa dal coperchio del deposito di spazzature, e i tedeschi che facevano questo servizio, raccogliendo i detritus della nostra prigione, consegnarono la merce all’angelo zoppo. Di questa maniera— molto più per la solidarietà che significava che per il rinforzo alimentare contenete— potemmo sopportare con cuore gioioso il carcere, nella cheka di Suzdal. Dopo dieci giorni, uscimmo da quel castigo. Il mio aspetto doveva essere deplorevole, a giudicare da quello dei miei compagni, pallidi, barbuti, con le occhiaie e sporchi. Uscendo dalla prigione non vedemmo il mutilato. Non tornai più a vederlo mai e mai più sono tornato a sapere di lui, ma conservo indimenticabile il suo ricordo in quello spazio della memoria accessibile alle più nobili ed affettuose emozioni...
Il ricevimento che ci fecero nel campo al nostro ritorno fu un’apoteosi. Eravamo riuniti vicino alle nostre brande quando un tenente rumeno si quadrò davanti a noi. —Vengo— ci disse— con la supplica che accettino questo modesto presente come simbolo di omaggio e gratitudine di tutti i prigionieri rumeni. E ci consegnò un pacchetto nel quale vi era quello che avevano raccolto i prigionieri di questa nazionalità per noi durante la nostra assenza: zucchero, tè, sapone, tabacco... Poi si presentarono i tedeschi con identica missione, e gli ungheresi, e finalmente gli italiani. Questi avevano confezionato un'immensa torta, una torta gigante, con un'allegoria disegnata con qualcosa che, nel suo aspetto esterno, sembrava cioccolato: una grata ombrosa, attraversata di un riga di sole. Tra le grate le cinque frecce del nostro emblema. La portarono in quattro, tanto grande era. Per farla dovettero privarsi, durante la nostra reclusione, della loro scarsa razione di zucchero e pane”[2].
Il caso è veramente molto commovente; è una mostra della nobiltà e grandezza di cui è capace il cuore umano. Non bisogna, però, aspettare a vivere situazioni estreme o eroiche --che magari non verranno nella nostra esistenza— per praticare la solidarietà e la virtù della generosità di cuore con i nostri simili. Ogni momento e circostanza dell’esistenza ci permettono di crescere nella pratica delle virtù, benché in cose piccole.
La vita ordinaria in comunità ne offre molteplici occasioni. L’importante è soprattutto l’atteggiamento interno con cui si fanno le proprie responsabilità. Quando noi ci uniamo solidariamente al prossimo, con apertura e animo generoso, osserviamo che cresce nel nostro intimo un’energia nuova e una felicità insospettata, che non può dare mai il denaro né i beni materiali. Infatti, nella vita del corpo mistico la solidarietà è ormai una virtù che si afferma quando capiamo per la fede, che la salvezza di tutti, cioè, il bene spirituale del mondo è collegato al bene di ogni singolo.
P. Luis Alfonso Orozco L.C.
[1]Cf. Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 193
[2] Cf. Luca de Tena Torcuato e Palacios Teodoro, Embajador en el infierno. Memorias del Capitán Palacios, Madrid 1955. Tratto dal capitolo 9 “Un ángel sin piernas” (Un angelo senza le gambe). La traduzione libera è mia.