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Sfidare i limiti del Corpo? La sfida e le ricadute antropologiche del Post-umano

Intervista al P. Alberto Carrara L.C, membro del gruppo di ricerca Essere Donna, Essere Uomo dell’Istituto di Studi Superiori sulla Donna e direttore del Gruppo di Neurobioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum
Domanda: Lei ha affermato in passato che il corpo umano esprime dei paradossi. Nel libro “Significare il Corpo, limite, incontro e risorsa” riprende questo argomento e elenca alcuni del presupposti antropologici del post-umano. Quali sono? Quali le ricadute?
È stato annunciato a più riprese a livello internazionale che al termine del 2017 la storia della scienza, e per alcuni, dell’umanità, registrerà un nuovo successo: verrà realizzato il primo trapianto di testa nell’essere umano (sarebbe meglio definirlo però trapianto di gran parte del corpo). È ciò che sostiene il neurochirurgo italiano Sergio Canavero. Riprendendo i risultati ottenuti sul cane nel 1954 dal russo Vladimir Demikhov e, soprattutto, quelli sulla scimmia del 1970 ad opera del chirurgo americano Robert White, Canavero, dal 2013 ad oggi, ha riproposto alla comunità scientifica il razionale della tecnica che renderà operativo, in Cina alla fine del 2017, il primo tentativo di sostituzione del corpo malato di un volontario tetraplegico russo, con il corpo sano di un donatore compatibile. Questo dato è stato immediatamente recepito da uno dei più attivi e preminenti movimenti transumanistici contemporanei: il 2045 Avatar Project o Immortality Project, fondato e guidato dal milionario russo Dmitri Itskov. Il progetto 2045 nelle sue diverse tappe, sostanzialmente rilegge la corporeità dell’uomo in chiave di limite da superare, da ri-plasmare a piacimento, sino alla sua parziale e completa sostituzione e, infine, alla sua definitiva perdita o annientamento. Lo scenario finale è una radicale enfatizzazione e riduzione di una componente dell’essere umano, la sua mente, e di quest’ultima in particolare l’autocoscienza, la quale definirebbe la persona umana nella sua essenza e sarebbe decodificabile a partire dai sostrati o correlati neurofisiologici. Una volta estratta dal cervello e digitalizzata, l’autocoscienza non avrebbe più bisogno di una corporeità, si radicherebbe in una virtualità senza barriere e limitazioni, insomma, risulterebbe immortale (è quello che accade nel film Transcendence). A detta di diversi esponenti del post-umanismo, a questo “nuovo uomo”, chiamato Homo ciber, quel che interessa è la “mente”, il resto, cioè il corpo, ingombra, risulta inutile. Dalla fotografia ai presupposti Innanzitutto, è utile chiarire alcuni termini già introdotti e considerare i presupposti antropologici che guidano certi scenari evoluzionistici ed apocalittici. In primo luogo, si parla di “cyborg”. Ma come lo possiamo definire? Nel pensiero di Donna Haraway, il cyborg è una miscela di tecnologia e cultura in quanto possiede in sé, allo stesso tempo, un elemento umano e uno tecnologico. Per Yehya, il cyborg è una miscela di organico, mitologico e tecnologico; è un essere che ci ingloba e che ci portiamo dentro. Ciò significa che robot, androidi ed esseri umani possono essere cyborg e contemporaneamente essere contenuti nel cyborg... Il cyborg e l’androide sono esseri limite, creature fondamentalmente metaforiche che ci aiutano a definirci, a stabilire le frontiere tra ciò che consideriamo naturale o artificiale, tra quello che facciamo e quello che siamo, e che ci aiutano inoltre a capire dove stiamo andando. Dal cyborg prende origine il “postumanesimo”, inteso quale vero e proprio «movimento culturale e filosofico nel quale si pensa e cerca di realizzare il cyborg»; esso «non si costituisce in modo autonomo a partire da un determinato momento, ma è piuttosto il risultato di una serie di idee convergenti che accomunano una serie di autori»; insomma, a detta di qualcuno sembrerebbe avere «molte vite e infiniti volti»16. Ecco allora che vi sono delle idee convergenti, cioè dei presupposti antropologici che ispirano il movimento post-umano. Seguendo Paolo Benanti si possono individuare e condensare in quattro assunti antropologici la visione del postumanesimo, il cui risultato finale sfocia in una prospettiva immortalista. La premessa a questi quattro assiomi antropologici è costituita dalla “malleabilità”: non esisterebbe più un concetto immutabile di umano o di umanità, concetto reso plasmabile proprio dall’evoluzione tecnologica di quest’ultimo secolo. C’è uno spartiacque che segnerebbe una sorta di mutamento tra una condizione “umana” ed una “post-umana”: il dovere di farsi carico di quest’intrinseca malleabilità: la condizione post-umana allora è il dover farsi carico di questa malleabilità che i postumanisti riconoscono come costitutiva dell’essere umano e che rappresenta la fine della condizione umana come è stata fin qui capita e conosciuta. L’era post-umana, per usare i termini di Robert Pepperell, è iniziata da quando l’uomo ha scoperto di star cambiando se stesso tramite la convergenza tra biologia e tecnologia così da non riuscire più a distinguere tra le due. L’opera di Pepperell, The Posthuman Condition Consciousness Beyound the Brain18, risulta significativa perché sin dal titolo collega due realtà cardini a tutto il discorso postumanistico: la coscienza e il cervello. Questa malleabilità confluisce nella “fluidità” che oggigiorno viene declinata in modo ancor più radicale quale realtà “gassosa” e che è l’esito della rinuncia a qualsiasi spiegazione con parvenza di stabilità e definitività riguardo al reale. Quest’opzione filosofica, si traduce, in primo luogo, nell’abbandono del concetto e della realtà di natura e successivamente, in ambito etico e morale, in un relativismo radicale che rende l’uomo incapace di formarsi ed esprimere un giudizio critico. Per quest’uomo post-moderno, tutto appare equivalente e perciò possibile e fattibile. Il sogno di una libertà “assoluta” sembra realizzarsi proprio nella fuga da ogni limite. La nozione filosofica di “natura” viene fortemente criticata, messa in discussione e, infine, eliminata. Le “idee convergenti” che strutturano le radici filosofiche del postumanesimo si riassumono in quattro: - La preminenza o superiorità dell’informazione sulla materia-materialità che fa cadere ogni confine e limite tra naturale ed artificiale suscitando la “speranza” che se l’essere umano potrà divenire pura informazione, allora potrà raggiungere l’immortalità desiderata; - La costituzione dell’uomo secondo la quale la coscienza sarebbe un epifenomeno che esclude ogni traccia di un’anima immateriale; - La concezione del corpo umano come mera protesi; il corpo ci appartiene ma non ci costituirebbe per quel che siamo in realtà; - La capacità dell’uomo di essere congiunto, senza soluzione di continuità con macchine intelligenti dato che non vi sarebbe alcuna differenza essenziale tra un’esistenza corporea e una simulazione computazionale o tra meccanismi cibernetici e organismi biologici. L’esito è quello di pensare e desiderare una sorta di immortalità tecnologica che possa far sfuggire all’essere umano tutti quei limiti e quelle fragilità di cui si scopre costituito: in un vero e proprio slancio “religioso”, alla tecnologia viene chiesto di farci percorrere la transizione da una condizione umana mortale ad una condizione post-umana di non-mortalità tecnologica. Il riduzionismo e il meccanicismo sono le due colonne portanti di questa sintesi che non tocca soltanto il corpo, ma persino la mente. In effetti, uno dei primi elementi sulla linea del riduzionismo è il concepire mente e corpo come meri oggetti. La mente acquista una preminenza e una sorta di rilevanza per “contenere” le informazioni proprie che caratterizzano la personalità individuale. Ne segue, di conseguenza, una considerazione marginale del corpo, “letto” sempre più quale limite negativo da dover superare, svalutandolo sino alla possibilità di una vera e propria scomparsa. Non è difficile individuare nel meccanicismo l’altro elemento filosofico che scompone il corpo in sistemi, apparati ed organi strutturati in parti riducibili, interscambiabili e sostituibili. La tecnologia e la tecnologizzazione al servizio della medicina rende sempre più blanda la distinzione tra strutture e funzioni biologiche e strutture e funzioni mediate da congegni e nuovi materiali che si fondono sempre più alla biologia umana. Se il corpo subisce questa tecnologizzazione volta alla sua completa sostituzione (sono ad un totale e presunto “abbandono dal corpo che possediamo”), dall’altro canto, anche la mente, distinta e separata dal suo supporto corporeo, subisce una progressiva riduzione che va dalla modificazione dei suoi sostrati neurali sino al “sogno” di rendere informazione digitabile i suoi contenuti. In tutto questo processo, gioca un peso forza il concetto di “controllo” incarnato dalla tecnologia e dalla rivoluzione neuroscientifica. Il dominio che si realizzerebbe investe tanto il corpo, come la mente. La conseguenza estrema è così la perdita dell’unicità e della singolarità di ciascun essere umano che come una goccia d’acqua si fonderebbe nell’oceano collettivo di una mente virtuale digitalizzata. Ogni confine verrebbe abbattuto e si realizzerebbe così il motto del transumanismo: “sono in qualsiasi parte” (“I am everywhere” è la frase ricorrente e centrale sia nel film Transcendence, come in Lucy). Oltre alle interfacce cervello-macchina, sin dal 2014 sono state sviluppate anche quelle cervello-cervello, da alcuni denominate interfacce mente-mente e dal 2015, attraverso l’evoluzione della tecnologia Brain-to-text che decodifica in frasi pronunciate da un computer le rappresentazioni cerebrali indotte durante la lettura mentale di un testo, si è aperta la strada a quella che per alcuni, non ultimi lo stesso fondatore di Facebook Mark Zuckerberg, hanno definito la prova lampante della “telepatia”. Diverse correnti filosofico-culturali convergono in questa sintesi: dal superamento dell’umano nel super-umano postulato da Friedrich Nietzsche, dal pensiero post-moderno, post-strutturalista e decostruzionista, dal pragmatismo utilitaristico, sino all’esaltazione della tecnologia quale nuova forza evolutiva capace di sfumare ogni demarcazione e differenza tra uomo e macchina, tra biologico e cibernetico. Perciò, in continuità con il postumanesimo, si parla oggi di “transumanesimo” e di “trans-umano”. Per la precisione, se si considera il neologismo inglese Transhumanism, da una prospettiva diacronica, la precedenza è di quest’ultimo rispetto a Posthumanism. Il transumanesimo non sarebbe altro che quella corrente dominante e sintetica (quella più radicale e pratica) del pensiero post-umano, movimento che si connota per la fluidità con cui incorpora nuove idee e prospettive. Dalle opere dello scrittore futurista Fereidoun M. Esfandiary (conosciuto con lo pseudonimo FM-2030), oggi una delle voci più preminenti del trans-umano è Nick Bostrom tra i cento pensatori più influenti del pianeta e ideologo del transumanesimo, il quale condivide quanto meno il dubbio che si stia andando verso un materialismo sempre più accentuato che sottende il progetto di un uomo di plastica, senza bontà, senza dolore, senza mistero, ma in fin dei conti conclude che è difficile emettere giudizi (riguardo ai limiti da porre al “progresso”) di fronte alla sofferenza umana. E infatti associa Leon Kass, presidente statunitense del Consiglio di Bioetica agli inizi del secolo, al bioconservatorismo probabilmente perché contrario agli esperimenti di clonazione e all’ingegneria genetica usata in modo convulso. La peculiarità della visione transumanista sta nel collocare il tutto all’interno dell’evoluzionismo, ora in mano alla tecnologia. La specie umana attuale, orientando la tecnologia verso un radicale mutamento della sua stessa natura, sarebbe in grado di provocare una convergenza tra informatica, robotica, intelligenza artificiale, neuroscienze, scienze cognitive, tale da consentire in un primo momento l’ibridazione tra uomo e macchina e, in ultima analisi, l’estrazione e digitalizzazione della mente dal corpo, sino alla sua inserzione ed espansione nella rete virtuale. Si realizzerebbe così l’immortalità immanente tanto desiderata dai teorici del transumano come Nick Bostrom. Cosa vuol dire quindi essere trans-umani? In breve: essere trans-umani significa allora dare il via ad un processo di fusione con le macchine, iniziare, cioè, un progressivo processo che ci porterà ad essere cyborg. Il modo in cui questo processo deve avvenire è ora pianificato ed identificato in una serie di passaggi successivi che permettano da un lato di sollecitare lo sviluppo tecnologico e dall’altro il progressivo abbandono di uno stato definito come meramente biologico. Due movimenti convergenti, uno iniziale negativo e uno successivo positivo, animerebbero questo processo: Il primo movimento di questo processo viene caratterizzato come negativo: si cerca di eliminare una serie di caratteristiche che vengono viste come costitutive del limite della condizione umana. A questa fase seguirà un secondo momento positivo: si aprirà un’epoca in cui nuove funzioni e capacità non possedute prima saranno comuni per i trans-umani. Un soggetto trans-umano si configurerà quindi come una evoluzione dell’uomo, un essere in cammino verso un esistenza post-umana.

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